Piccaluga: “Creatività italiana e management all’americana per la ricerca pubblica”
11/02/16
Intervista ad Andrea Piccaluga, presidente di Netval e professore di Economia e Gestione delle imprese alla Scuola Superiore Sant'Anna di Pisa
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Intervista ad Andrea Piccaluga, presidente di Netval e professore di Economia e Gestione delle imprese alla Scuola Superiore Sant'Anna di Pisa
Le dinamiche del trasferimento tecnologico sono il suo pane quotidiano. Parliamo di Andrea Piccaluga, presidente di Netval, il Network per la valorizzazione della ricerca universitaria, e professore di Economia e Gestione delle imprese alla Scuola Superiore Sant'Anna di Pisa, dove è delegato al trasferimento tecnologico e coordinatore del PhD in Management. Con lui abbiamo parlato di come funziona e può essere migliorato il sistema del trasferimento di tecnologia e di conoscenza della ricerca pubblica in Italia.
Partiamo da Netval. Qual è la missione del vostro network e quali i principali risultati raggiunti dalla sua costituzione nel panorama italiano della valorizzazione della ricerca universitaria?
Netval è stato fondato 12 anni fa perché avevamo la chiara percezione che la valorizzazione dei risultati della ricerca pubblica stesse diventando una questione sempre più importante. Ma purtroppo le università e gli enti pubblici di ricerca (EPR) italiani non erano ancora ben attrezzati. Così abbiamo cercato - con un’iniziativa bottom-up - di creare un network nel quale le persone che nelle università e negli EPR lavoravano su questi temi potessero frequentarsi, condividere, imparare insieme. Il primo obiettivo era quindi quello di crescere insieme e di “fare cultura” su questi temi. Penso che questo obiettivo sia stato raggiunto e ovviamente continuiamo a lavorarci. Cammin facendo sono poi emerse anche altre necessità, come quelle di creare partnership e canali di collegamento con il mondo delle imprese, con i finanziatori, con soggetti a livello internazionale, con i ministeri. Ci sono ancora molte cose che possiamo fare meglio. Abbiamo anche individuato delle necessità per le quali non siamo attrezzati, per le quali non abbiamo le forze. Ma sicuramente abbiamo dato un contributo per tenere compatta la comunità delle persone che si occupano di trasferimento tecnologico in Italia.
L’ultimo rapporto Netval ruota, fino dal titolo, attorno al concetto di ecosistema dell'innovazione. Oltre a darcene una definizione rappresentativa della situazione italiana, e toscana, come crede che questo ecosistema possa oggi incidere sull'economia del Paese e quali sono le criticità da superare per irrobustirne l’impatto?
Ci sarebbero molte cose da dire e discutere su questo tema. La prima che mi viene in mente è che in Italia ci sono troppe iniziative di piccole dimensioni. E’ vero che talvolta “piccolo è bello” e che la dimensione locale è molto importante, ma accade anche che l’eccesso di frammentazione faccia sì che non si sappia bene a chi rivolgersi e che gli attori in campo abbiano risorse economiche e relazionali limitate. Ecco, con il passare del tempo, il nostro network ha cercato di contribuire ad una sorta di processo di selezione dei soggetti. Ormai Netval sa chi sono i venture capital, i business angel, gli incubatori, le grandi imprese cui fare affidamento. Quindi, fermo restando il principio di trasparenza che deve caratterizzare l’amministrazione pubblica, sappiamo quale è il “nocciolo” dell’ecosistema dell’innovazione sul quale possiamo contare per la valorizzazione dei risultati frutto della ricerca pubblica.
Che contributo ulteriore potrebbe arrivare dalla ricerca pubblica, non solo accademica, e cosa manca agli Uffici di Trasferimento Tecnologico delle università per essere davvero motori di innovazione?
La qualità della ricerca pubblica italiana è molto buona se la analizziamo in rapporto alle risorse economiche investite. A parte la facile affermazione che “si dovrebbe investire di più nella ricerca pubblica”, cosa che secondo me è vera, se facciamo dei confronti con altri paesi avanzati, forse mi viene in mente che dovremmo fare dei tentativi per rendere la gestione della ricerca più semplice a tutti i livelli. Con uno slogan potremmo forse dire “creatività italiana e management all’americana” per la ricerca pubblica. Gli UTT fanno quello che possono. Potrebbero fare meglio se avessero qualche persona in più (in media occupano 3 persone) e se potessero contare su professionalità più avanzate, ma la vera differenza la fa il sistema economico che ti sta intorno. Non siamo in California, con decine di grandi imprese fuori dal campus, né ad Oxford, dove si trovano facilmente 50/100K per le fasi di proof of concept. Siamo in Italia e gli UTT cercano di fare il meglio che possono.
Guardando al mondo delle università italiane e al fenomeno delle imprese spin-off, il nostro Paese sembra mostrare difficoltà a interfacciarsi con il mercato. Crede si possa declinare una 'via italiana' per arrivare a una contaminazione più incisiva tra università e impresa?
In parte vale quanto detto sopra. Non credo che in Italia si possa applicare in toto il modello americano o israeliano: alto rischio e crescita rapida in vista della quotazione in borsa o comunque delle vendita. Inevitabilmente il modello italiano deve essere un po’ diverso e prevedere anche processi di crescita più lenti, che richiedono tempi più lunghi. Nel nostro paese stanno nascendo imprese molto interessanti. Indubbiamente non è facile per loro accedere a mercati lontani. Cosa si potrebbe fare? Per esempio sarebbe auspicabile un rapporto ancora più stretto tra le nostre spin-off e le medie e grandi imprese manifatturiere italiane.
Focalizziamoci sulle spin-off universitarie, di cui Netval è un osservatore privilegiato. Rispetto al tema del trasferimento tecnologico, siete soddisfatti o servirebbe riaprire un percorso legislativo (o politico e organizzativo) per affrontare, in primis, il rapporto tra impresa spin-off e università di provenienza?
A parte la questione dell’art. 65 (il riferimento è al Codice della Proprietà Industriale, nell’articolo che norma le invenzioni dei ricercatori delle università e degli enti pubblici di ricerca) che secondo noi è una sorta di “peccato originale” e che dovrebbe essere cambiato, la normativa così come è non va male. Il problema semmai sono tutte quelle norme che il legislatore pensa per enti come le Regioni o i Comuni e che poi vanno a impattare anche sulle università, che magari il legislatore non aveva in mente. Oggettivamente spesso le cose sono più complicate di come potrebbero essere.
Netval, per sua natura, opera collaborando con una importante rete di partner. Che rapporti ci sono o possono crearsi in termini di sinergie e complementarietà tra gli UTT e /o Netval con i Distretti tecnologici e i Cluster nazionali di settore, a partire dalle scienze della vita?
Per collaborare bisogna essere almeno in due. Di Netval conosco pregi e limiti e di solito siamo molto chiari su ciò che possiamo o non possiamo fare. E in generale cerchiamo di evitare le collaborazioni “di carta”, quelle basate su protocolli ed MoU che non portano a niente. Penso che lo stesso accada con i distretti e i cluster. Alcuni hanno le idee chiare e sono diretti da persone molto concrete e trasparenti. Con questi - come è il caso del distretto toscano di scienze della vita - non possiamo che fare belle cose.
Lei è anche docente e delegato al trasferimento tecnologico della Scuola Superiore Sant'Anna, che in questo momento sta investendo molto su un nuovo e potenziato Istituto delle scienze della vita. Perché e con quale futuro?
La Scuola ha performance eccellenti nel campo del trasferimento tecnologico. Non è tanto merito mio (magari del mio staff un pochino sì!) quanto degli eccezionali docenti, ricercatori e PhD students che abbiamo alla Scuola. Si tratta di persone che lanciano progetti di ricerca molto originali e che spesso poi si impegnano anche nel creare imprese spin-off per portare i risultati di ricerca sul mercato. Nell’ambito dell’Istituto di Scienze della Vita il settore di medicina si era un po’ indebolito negli ultimi anni. Dovevamo decidere se rilanciarl
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