L'Ufficio di riferimento regionale in materia di valorizzazione dei risultati della ricerca biomedica e farmaceutica si chiama UVaR e dal 2009 è attivo presso la Direzione Generale Diritti di Cittadinanza e Coesione Sociale (che fa capo all’assessorato alla sanità, ndr) della Regione Toscana per supportare il settore interno di riferimento nella gestione dei bandi di ricerca e irrobustire i processi di trasferimento tecnologico e di innovazione in ambito scienze della vita. Il principale valore aggiunto portato da UVaR in questi anni è stata la creazione di sinergie tra le competenze giuridico-amministrative regionali e quelle tecnico-scientifiche della Fondazione Toscana Life Sciences, che è poi il soggetto operativo che coordina e gestisce anche le attività del Distretto Scienze della Vita. Di UVaR e, più in generale, del sistema toscano di valorizzazione della ricerca di settore, ne parliamo oggi con Andrea Frosini, Intellectual Property Manager di Fondazione TLS e collaboratore della struttura.
Partiamo da UVaR, cosa fa e con chi si interfaccia?
In concreto UVaR offre supporto alla gestione tecnico-scientifica dei bandi attivati per sostenere la ricerca in sanità, nelle sue accezioni preclinica e clinica, e in particolare sul fronte della proprietà intellettuale, della divulgazione scientifica dei risultati della ricerca e sulle azioni di trasferimento tecnologico correlate ai progetti finanziati. Inoltre l’ufficio, in sinergia con gli Industrial Liaison Office delle Università toscane e con le quattro Aziende Ospedaliero-Universitarie del Servizio Sanitario Regionale, supporta i processi di valorizzazione dei risultati della ricerca biomedica e farmaceutica anche attraverso attività di due diligence brevettuale, gestione dei titoli di proprietà intellettuale, business intelligence e trasferimento tecnologico, oltre ad azioni di marketing e di divulgazione della cultura della proprietà intellettuale e organizzazione e monitoraggio delle attività di sperimentazione clinica.
“Valorizzare la ricerca”, cosa significa, in concreto?
Valorizzare significa creare valore. Un concetto che, in ambito scientifico, si traduce nella creazione dei presupposti affinché i risultati della ricerca possano essere messi in pratica e siano fruibili a tutti. Una fruizione che va intesa sia come conoscenza e diffusione dei risultati alla comunità scientifica e ai cittadini, che in termini di sfruttamento sul mercato e nella pratica medica.
Qual è la declinazione di questa definizione nell’ambito delle life sciences?
Nel caso delle scienze della vita, valorizzare la ricerca significa creare le condizioni affinché le innovazioni destinate a migliorare la cura, la prevenzione, la diagnosi e, più in generale, il benessere delle persone, possano essere a disposizione dei cittadini.
Quali sono gli strumenti concreti per valorizzare la ricerca?
Il contenuto e il contesto sono i due presupposti per un’efficace valorizzazione della ricerca, che sarà tanto più sostenibile quanto più risponderà a problemi reali riscontrabili nella pratica medica quotidiana (unmet clinical needs). Un altro elemento chiave è creare un ecosistema in cui procedure, regolamenti e meccanismi istituzionali rispondano alle sollecitazioni in maniera rapida. Queste componenti devono essere interconnesse, chiare e precise, soprattutto nel rapporto tra pubblico e privato, altrimenti rischiano di diventare un ostacolo. E purtroppo in Italia il sistema è molto farraginoso e ingessato specialmente quando ci si pone all’interfaccia fra pubblico e privato.
A suo parere quali sono i passi essenziali da fare e quale l’obiettivo finale del percorso?
Innanzitutto delineare delle procedure operative standard per la promozione e per la gestione dei processi di valorizzazione della ricerca clinica e preclinica condivise fra i vari attori del sistema. La logica di fondo deve essere quella della collaborazione tra Atenei, Enti Pubblici di Ricerca e Sistema Sanitario che si costruisce e si rafforza condividendo esperienze, infrastrutture, professionalità. Accanto a questo serve investire sull’adeguamento delle infrastrutture e dei processi di ricerca ai parametri dettati delle Good Laboratory e Clinical Practices, in modo che i risultati della ricerca possano essere spesi in contesti normativi molto stringenti, come ad esempio le certificazioni necessarie per portare un prodotto diagnostico o terapeutico sul mercato. Un altro passo avanti dovrà necessariamente essere fatto per risolvere il dualismo assistenza-ricerca, specialmente in ambito sanitario, per cui i professionisti sono chiamati a sviluppare ricerca nei ritagli di tempo rispetto alle loro imprescindibili mansioni assistenziali, creando problemi sia a livello di gestione tecnica che amministrativa della ricerca stessa e dei suoi risultati.
Come superare queste criticità?
Dandosi l’obbiettivo di potenziare le funzioni di supporto alle pratiche di valorizzazione dei risultati della ricerca in ambito clinico-assistenziale attraverso politiche d’integrazione, in una logica di complementarietà di offerta fra Atenei e Sistema Sanitario, rilanciando la creazione di sinergie fra funzioni di ricerca, formazione e innovazione. Sempre più si nota come i migliori risultati vengono raggiunti in quei contesti in cui le funzioni di governo dell’innovazione e supporto alla valorizzazione della ricerca sono integrate negli organigrammi aziendali, con uffici e professionalità dedicate, nonché budget e relative responsabilità di gestione delegate e misurate su metriche chiare e robuste.
Quali sono gli strumenti per cogliere questi risultati?
Sono diversi, e la lista non è esaustiva: la mobilità di personale di ricerca qualificato per i rapporti con le imprese, per esempio, e la divulgazione dei risultati delle ricerche. Penso anche che debbano essere stimolate le interazioni tra creatori e utilizzatori di nuove conoscenze, così come i programmi di ricerca sponsorizzati da privati. L’elenco degli strumenti è lungo: gli accordi multi – livello, come quelli per la creazione di laboratori congiunti; il trasferimento di know-how di ricerca in favore di privati; le attività imprenditoriali di personale di ricerca; lo sviluppo di proprietà intellettuale e industriale codificate, le licenze verso imprese esistenti o di nuova costituzione.
Commercializzare invenzioni, dunque, non basta.
No, dobbiamo costruire un quadro istituzionale che renda la ricerca fruibile dalla società. Nel caso del trasferimento tecnologico in sanità, poi, serve una valutazione dell’impatto su qualità della cura, benessere, efficacia dei trattamenti, accessibilità, produttività, organizzazione del lavoro, natura del lavoro, spesa in sanità, crescita del territorio. Non è possibile pensare che progetti innovativi o brevetti forti possano nascere indipendentemente da un quadro generale ricettivo, e che da soli possano concorrere al successo di una tecnologia sul mercato; a mio parere è vero invece che un contesto in cui le forze sono unite e ben indirizzate per una valorizzazione sia condizione necessaria (ma non sufficiente) per l’emersione di tali opportunità.
Come si traduce tutto questo nella pratica?
Nell’attivazione più pertinente e adeguata degli strumenti per una corretta tutela dei risultati della ricerca, con particolare riferimento ai diritti di proprietà intellettuale e industriale. Prendiamo a esempio il caso dei brevetti: la necessità dell’Itali
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