Boggetti, Assodiagnostici: “L’Italia dimostri di credere davvero nel settore se vuole attrarre investimenti”
17/12/15
Intervista a Massimiliano Boggetti, Presidente di Assodiagnostici e Amministratore Delegato di Sebia Italia
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Intervista a Massimiliano Boggetti, Presidente di Assodiagnostici e Amministratore Delegato di Sebia Italia
Se è vero che la nuova frontiera della medicina guarda alla personalizzazione della cura, il settore della diagnostica di laboratorio potrebbe assumere un ruolo ancora più significativo. Già oggi, in base ai dati di Assodiagnostici - l’associazione di Assobiomedica che rappresenta le imprese di diagnostica in vitro - in circa il 70% dei casi il clinico si avvale dei dati di laboratorio per fare attività di prevenzione, diagnosi e cura. Di presente e futuro del settore, di numeri e ambizioni, criticità e aspettative, ne abbiamo parlato con Massimiliano Boggetti, Presidente di Assodiagnostici e Amministratore Delegato di Sebia Italia, filiale della multinazionale francese leader nella diagnostica oncologica con la fornitura di strumenti per elettroforesi.
Partiamo da una panoramica del settore rappresentato da Assodiagnostici
Del nostro settore fanno parte le imprese che producono e forniscono diagnostici in vitro, un insieme che comprende reagenti, strumenti, software, ma anche i servizi connessi. Guardando ai numeri, il settore della diagnostica in vitro conta 260 imprese - il 47% di natura commerciale, il 53% che fa anche produzione - e 75 startup, di cui il 36% iscritte al registro "startup innovative". Il settore occupa circa 6.300 dipendenti e il mercato italiano genera un fatturato di 1,8 miliardi di euro annui. Va detto che il mercato dei dispositivi medici, di cui la diagnostica in vitro è parte, risulta essere molto eterogeneo e comprende un universo di tecnologie diverse tra loro. Il nostro è un comparto a sé stante, negli ultimi tre anni in recessione, e sotto certi punti di vista più maturo e complesso degli altri perché prevede capitalizzazione di grossi macchinari, tipologia di vendita “pay per use” e fornitura di servizi insieme alla vendita della tecnologia. E’ stato inoltre già interessato da una profonda trasformazione, conseguente alla riorganizzazione territoriale delle reti di laboratorio di diagnostica in vitro. Rispetto al macrotrend, è in corso un fenomeno di fusioni e acquisizioni, tanto che il 70% del mercato è oramai concentrato nelle mani di poche grandi imprese.
Innovazione è oggi è una parola chiave, ma richiede spesso investimenti ingenti. Come è possibile, secondo lei, conciliare lo sviluppo e l’adozione di innovazione nel privato con la sostenibilità del sistema sanitario pubblico?
La medicina moderna ha bisogno di innovazione tecnologica e l’industria continuerà sempre a investire in tecnologia. Quello in innovazione è un investimento imprescindibile, considerarlo un mero costo sarebbe un errore. Al contrario, e sono i dati di più di uno studio a dirlo, l’innovazione porta grandi vantaggi, sia dal punto di vista clinico che di impatto economico a medio e lungo termine. Nel caso della diagnostica di laboratorio, l’innovazione tecnologica è fondamentale nella prevenzione ed influisce positivamente sui tempi di degenza e sull’appropriatezza della cura e dell’utilizzo delle terapie, in un’ottica di migliore gestione del paziente. Queste metriche ci dicono che investire in innovazione tecnologica può avere un impatto positivo sui costi della sanità. Faccio un esempio: l’investimento che l’industria ha fatto nell’automazione strumentale ha generato risparmi e un impatto concreto sui processi organizzativi territoriali, attuati dalla Regione Toscana in ambito di concentrazione delle reti di laboratori in ESTAV prima, ed ESTAR oggi. Se i sistemi sanitari fanno politiche di centralizzazione degli acquisti guidate dal solo prezzo, si rischia di non promuovere l’innovazione che, come investimento economico, va sempre valutata in relazione all’intero ciclo di vita del Dispositivo Medico, come anche indicato dalla Direttiva Europea n.24 del 2014.
Oltre ai suoi ruoli associativi, lei è ovviamene anche manager di un’azienda del settore, con sede in Toscana. Quali sono i fattori che potrebbero favorire l’aumento di investimenti della vostra casa madre in Italia?
Guardando al nostro settore, è chiaro che per far tornare le multinazionali a investire serve un’inversione di tendenza nel mercato domestico. Un comparto che decresce non interessa, quindi è fondamentale che si torni a credere che la medicina di laboratorio sia utile. Certo, gli investimenti delle industrie in R&D non sono fermi, il tasso è sempre sul 6%, semmai quello che c’è da chiedersi è quanto di quegli investimenti vengono portati in Italia o abbiano ricadute dirette sul Paese. E qui entriamo nel tema dei grandi problemi che ammorbano l’Italia e il mercato, dalla burocrazia ai tempi di pagamento, dalla rinegoziazione contrattuale al rispetto delle regole. E’ difficile chiedere a un industriale di reinvestire nel nostro Paese quando ti viene chiesto uno sconto su contratti in essere, aggiudicati con regolari gare d’appalto, o sulla fornitura di tecnologia che le imprese hanno già messo a diposizione in conto capitale. O ancora, dove si applica il sistema del “pay back”, già retroattivo da quest’anno, in un mercato che arretra e che non ha contributo neppure allo sforamento del tetto di spesa regionale. Tutti gli indicatori ci dicono che il Sistema Sanitario Nazionale italiano è sotto finanziato rispetto all’Europa, ma si continua a chiedere alle imprese di fare sacrifici come unico meccanismo di risparmio. Se l’Italia è la prima a non crederci, è difficile pensare che l’industria straniera voglia venire da noi a investire. Serve di sicuro anche un cambio di mentalità.
Con il progetto “Pharma & Device Valley" la Regione Toscana, però, sta cercando di favorire il consolidamento e l’attrazione di nuovi investimenti. Dato che lei è stato coinvolto direttamente nei tavoli di lavoro, cosa serve adesso per garantire l’operatività al progetto?
La Toscana non è la prima che ha provato a credere nel mercato delle Life Sciences, anche la Lombardia lo ha fatto. Di sicuro chi sceglie un posizionamento e torna a credere nel nostro mercato, dando nuova linfa alle imprese siano esse start-up, piccole-medie o grandi, merita un plauso. Bene quindi il progetto, ma adesso serve un impegno preciso, e quello a mio avviso arriva dall’effettiva allocazione di un budget. Il primo passo per ‘dare gambe’ alla “Pharma & Device Valley” e ai tavoli di lavoro, a cui io ho presieduto come coordinatore delle industrie dei Dispositivi Medici toscane, è che la Regione ci metta risorse e dia visibilità al progetto. In Inghilterra, per esempio, l’hub MedCity che ruota attorno al “triangolo d’oro” di Londra, Oxford e Cambridge, si è già posizionato da tempo come riferimento europeo sui temi della medicina di precisione. Per quanto riguarda la “Toscana Pharma & Device Valley” l’unica progettualità che sta andando avanti concretamente è quella della logistica, ma ce ne sono altre che hanno grande valore e interesse, come quella su innovazione e public procurement. L’auspicio è che il progetto possa ripartire con l’iniziale spinta propulsiva da parte della Regione e con risorse, che in questa fase iniziale non possono essere chieste alle imprese. Di sicuro in Italia non abbiamo bisogno di tante “Pharma Valley” in competizione l’una con l’altra, serve un progetto organico a livello nazionale che abbia dentro le diverse progettualità regionali complementari tra sé, sulla base delle eccellenze e specializzazioni territoriali.
Dopo l’iniziativa del governo americano, anche in Italia si parla molto di medicina di precisione. Crede che adesso, sia dal punto di vista scientifico che tecnologico, i tempi siano maturi per una reale implementazione di sistema? Cosa ne pensa dal suo duplice punto di vista?
Certamente è il momento di investire nella medicina di precisione. Non però in maniera isolata, all’Italia serve un’iniziativa congiunta. Altri Paesi, l’America per prima ma anche l’Inghil
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