Laboratori in miniatura, capaci di effettuare un primo screening point-of-care su un chip con dimensioni variabili da pochi millimetri a qualche centimetro quadrato. Parliamo di lab-on-chip, dispositivi microfluidici che integrano funzioni multiple su un singolo chip e che, in un futuro molto prossimo, potrebbero rivoluzionare il settore della diagnostica clinica, permettendo di effettuare la maggior parte delle analisi chimiche e biologiche che oggi avvengono in laboratori specializzati, con risparmio di tempo e di costi. Ma come funzionano e come riescono a garantire risultati analitici più veloci e accurati? Cuore e cervello dei Lab-on-Chip sono i biosensori, dispositivi miniaturizzati capaci di riconoscere, per esempio, una specifica molecola di interesse clinico e diagnostico correlata a un stato patologico o a una alterazione funzionale dell’organismo. Di una nuova generazione di biosensori e, più in generale, di nanomedicina, abbiamo parlato con il professore Giuseppe Barillaro del Dipartimento di Ingegneria dell’informazione dell’Università di Pisa.
Professore, cosa sono i biosensori?
I biosensori sono una tipologia specifica di sensori in cui l’elemento di riconoscimento è una molecola biologica (biorecettore). Un sensore è un dispositivo analitico che traduce una variazione di una grandezza fisica (p.e. temperatura, deformazione, indice di rifrazione) in un segnale ottico e/o elettrico. I sensori rappresentano di fatto l’interfaccia tra il mondo che ci circonda e i sistemi di elaborazione elettronici (p.e. strumentazione, smartphone, computer) che sono ormai parte integrante della nostra quotidianità. Il fatto che nei biosensori l’elemento di riconoscimento sia una molecola biologica permette di avere una elevata specificità nella misura di una molecola target, specialmente quando questa si trova in presenza di altre molecole a cui non si è interessati (interferenti), come tipicamente succede nella diagnostica clinica in cui si usano fluidi biologici quali sangue, siero, saliva.
Con l’Istituto di Fisiologia Clinica del CNR di Pisa avete recentemente sviluppato una nuova generazione di biosensori. Qual è l’innovazione?
Si tratta di biosensori ottici ultrasensibili in silicio nanostrutturato, sviluppati per lo screening point-of-care di marker di interesse clinico, tra i quali potrebbero esserci in futuro marker tumorali e cardiaci. Questi biosensori utilizzano un materiale nanostrutturato che permette di ricreare una foresta di elementi di dimensioni nanometriche (elementi fino 100000 volte più piccole di un millimetro) su una chip di silicio con superficie molto ridotta (un centimetro cubo di questo materiale, se venisse steso, avrebbe la superficie di due campi di calcio). In questo modo abbiamo a disposizione una vasta superficie per posizionare elementi di riconoscimento biologici e per raccogliere molecole target. I biosensori che abbiamo sviluppato ad oggi ci permettono di riconoscere la proteina TNF-alfa (un marker che ha un certo interesse nello screening tumorale e cardiaco) a concentrazioni molto basse in modalità label-free (cioè senza l’uso di molecole fluorescenti). Una innovativa tecnica di lettura (IAW, Interferogram Average over Wavelength Reflectance Spectroscopy), permette di migliorane di 10mila volte le prestazioni di questi biosensori in termini di sensibilità.
Poco costosi, ultrasensibili, con applicazioni mediche di tipo point-of-care. Parliamo di una sorta di rivoluzione della diagnostica?
Costano poco perché la tecnologia di fabbricazione utilizzata è a basso costo. Oggi i circuiti integrati dei nostri smartphone sono tutti realizzati mediante uso di tecnologie microelettroniche in silicio; le tecnologie al silicio sono così avanzate che permettono avere costi irrisori per produzioni di massa, da centinaia di migliaia a milioni di pezzi. La fabbricazione dei nostri sensori prevede una complessità di fabbricazione che è 100 volte inferiore (solo 4 o 5 step tecnologici) a quella di un circuito integrato. Questo significa che se prodotti su larga scala il costo sarebbe inferiore a un centesimo di euro per pezzo. Se riuscissimo ad ottimizzarne le prestazioni analitiche e a portarli ad un livello pre-industriale, potremmo avere sul mercato dispostivi portatili a basso costo, in grado di eseguire analisi in modo veloce e affidabile. Almeno il primo screening potrebbe essere fatto anche da personale non specializzato, con poche ore (se non minuti) di attesa, come oggi già avviene per i test di gravidanza o la misurazione del livello di glicemia. E, in un futuro, la lettura del risultato potrebbe essere fatta attraverso uno smartphone, quindi uno strumento alla portata di tutti.
La tendenza è quella della diagnostica medica personalizzata?
Nessuno vuole soppiantare i test clinici, i laboratori di analisi continueranno a fare il loro lavoro. Con i lab-on-chip anche personale non specializzato avrà tuttavia a disposizione uno strumento per fare dei test in situ prima di recarsi in laboratorio. Sul fronte dello screening point-of-car edi marker diagnostici, nel progetto Sens4Bio (Ultra-Sensitive Flow-ThroughOptofluidicMicroResonators for Biosensing Applications), finanziato dal MIUR nell’ambito dei progetti Futuro in Ricerca (FIR), abbiamo messo a punto i biosensori sulla molecola TNF-alfa, che è interessante in vari ambiti della diagnostica clinica quale marcatore della sepsi (stato di infiammazione), cardiaco e tumorale, sebbene in quest’ultimo caso non rappresenti uno dei marker più studiati. Il prossimo passo è quello di testare anche i livelli di microRNA (miRNA)nel sangue, perché il loro riconoscimento attraverso biosensori ultrasensibili ci permetterebbe di fare un grosso passo avanti nella diagnostica dei tumori (o altre patologie cliniche) in fase precoce.
Restiamo nell’ambito della nanomedicina, altri progetti a cui state lavorando?
Il silicio nanostrutturato che abbiamo utilizzato per i biosensori, per le sue caratteristiche intrinseche, può essere utilizzato come carrier nei processi di drug delivery. Caricato con un farmaco e iniettato nel circolo sanguigno (è biodegradabile) è un vettore efficace per la distribuzione mirata di principi attivi solo sul bersaglio. Anche la crescita tessutale è un ambito di ricerca su cui stiamo lavorando con gli organs on chips. Semplificando, si tratta di riprodurre in un chip di silicio la micro e nanostruttura di un organo (noi lo stiamo facendo sul fegato) per lo studio di tossicità di un farmaco. Questi mini-dispositivi permetterebbero di superare alcuni limiti e criticità degli studi in vitro e in vivo (su animali), offrendo uno step intermedio più accurato dove verificare le interazioni tra organi e farmaci, con applicazioni in ambito di medicina personalizzate e screening tossicologico.
Qual è, rispetto alle vostre progettualità di ricerca, il livello di collaborazione con le imprese?
Direi fondamentale. Una cospicua parte del finanziamento delle attività di ricerca (non solo life sciences e health care, ma anche e soprattutto information technologies) del Dipartimento di Ingegneria dell’Informazione arriva da imprese (piccole e grandi, locali e internazionali). Per noi la terza missione è quella del trasferimento tecnologico. Cerchiamo di coprire dalla ricerca di base a lungo periodo alla prototipazione pre industriale a medio termine, quando possibile, e portare i risultati delle nostre ricerche a un livello tale che l’impresa, se interessata, possa partire dal prototipo e svilupparlo.
Lavorare per avvicinare ricerca e industria, quindi
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