Capire e dialogare con il cervello attraverso i modelli neurali
05/02/18
Abbiamo intervistato Alberto Mazzoni, ricercatore dell'Istituto di BioRobotica della Scuola Sant'Anna.
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Abbiamo intervistato Alberto Mazzoni, ricercatore dell'Istituto di BioRobotica della Scuola Sant'Anna.
Tradurre i numeri e trasformarli in sensazioni attraverso un algoritmo. Liscio, morbido, duro, stati degli oggetti che il cervello riconosce anche se non arrivano direttamente dalle sensazioni della mano. Come è possibile? Attraverso impulsi elettrici e una serie di modelli creati dal gruppo di Translational Neural Engineering del Prof. Silvestro Micera e dal gruppo di Neuro-Robotic Touch guidato dal Dr. Calogero Oddo, entrambi dell’Istituto di BioRobotica della Scuola Sant’Anna. Alberto Mazzoni è uno dei ricercatori impegnati in questo campo, dopo una laurea in Fisica Teorica, un dottorato in Neurobiologia alla Scuola Internazionale Superiore di Trieste, un periodo di lavoro in California all'Università di San Diego e una lunga esperienza all’Istituto Italiano di Tecnologia (IIT).
Dottor Mazzoni, cosa sono questi modelli?
“Sono modelli neurali, cioè programmi che si comportano come farebbero i neuroni, le cellule del cervello. Cerchiamo di capire come il sistema nervoso codifica le informazioni e le trasmette. Cerchiamo di imitare l’attività dei neuroni per far credere al cervello che l'informazione che gli arriva venga da un neurone vero e non da uno stimolo esterno”.
Da cosa è fatto lo stimolo esterno?
“Da impulsi elettrici. Abbiamo creato dei modelli neurali che, attraverso gli impulsi elettrici, ripropongono le sensazioni: nel 2014 i ricercatori del Sant'Anna hanno riprodotto quelle del morbido e del duro, nel 2016 quelle del liscio e del ruvido. Adesso lavoriamo a dettagli ancora più specifici”.
Oltre a riprodurre le sensazioni del tatto, ci sono altri usi degli stimoli elettrici al sistema nervoso?
“Certo. Servono, ad esempio, nel Parkinson e in alcuni disturbi mentali. In questi casi, se i farmaci non sono sufficienti, è possibile realizzare un impianto con questi stimoli. In molti casi e in buone percentuali il tremore diminuisce”.
Secondo quale meccanismo?
“Ecco, questo ancora non è chiaro. Nessuno sa cosa regoli questo funzionamento, il cervello è una meccanismo molto complesso e ancora non del tutto compreso. Noi ci occupiamo proprio di questo, cioè di capire come funziona una determinata area del cervello e quale sia la relazione tra la sua attività e le diverse malattie. Simuliamo i diversi stimoli, osserviamo quale potrebbe avere il miglior effetto terapeutico e quindi suggeriamo ai medici quale terapia seguire. É come costruire un aereo dopo averlo testato al computer”.
Per esempio?
“Entriamo nel campo dell’elettroceutica, cioè impianti neurali clinici che impiegano gli stimoli elettrici nella cura di alcune malattie. Nel caso di quelle metaboliche, se le aree giuste vengono stimolate elettricamente nel modo corretto esistono buone probabilità che si riequilibrino”. É la neuroingegneria medica, volendo è la versione dell’agopuntura del terzo millennio”.
Nei laboratori della Sant’Anna e grazie alle collaborazioni con enti e ospedali lavorate per creare e poi trasferire dalla carta al reale studi e scoperte. Esse hanno poi un mercato?
“L’idea è di creare start-up e spin-off per non disperdere il tessuto di relazioni e di conoscenze e, in questo, gli incubatori tecnologici sono fondamentali”.
Con chi collaborate per le vostre ricerche?
“In particolare con ospedali che fanno ricerca biomedica. Sono loro che spiegano a noi in quale direzione orientare le nostre ricerche. Presto ci avvicineremo anche ai disordini mentali”.
Cosa spinge un fisico teorico a studiare il cervello e a tornare in Italia invece di proseguire il proprio lavoro negli Stati Uniti?
“Avevo scelto la fisica perché volevo capire il mondo, sono diventato un neuroscienziato perché ho capito che la parte più interessante del mondo è il cervello umano. L’Italia è ancora molto sottovalutata, ma è un Paese molto competitivo. Una delle realtà più competitive, fra l’altro, è proprio la Scuola Sant’Anna, perciò non rimpiango affatto di essere in Italia a fare ricerca”.
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